| Matxyzt |
| | Quello che ho visto a Padova, non me lo scordo più di Angelo Rota Questa è la cronaca di un pomeriggio da incubo, che ha lasciato un segno indelebile nella mente e nel cuore di un tifoso bresciano che si trovava ieri allo Stadio Euganeo di Padova per assistere ad una partita che doveva portare alla realizzazione di un sogno, in una festa, e che si è invece trasformato in uno dei capitoli più vergognosi della storia del tifo biancoblù. Dopo una settimana di corsa al biglietto, con code, polemiche e tanta tensione sportiva, arriva finalmente la domenica, il giorno della partita che aspettavo da 5 anni. Scelgo di andare in macchina, per essere più autonomo dal punto di vista logistico. Il match inizia alle 15 e Padova dista poco più di 150 km, ma so che oggi saremo tanti e che ci vorrà del tempo per entrare tutti allo stadio, quindi alle 11 sono già in partenza in compagnia dei miei amici di sempre, tutti con una maglia biancoblù addosso. La tensione si taglia con il coltello, ma cerchiamo di smorzarla con lo spirito goliardico, mangiandoci i panini che ci siamo preparati e accompagnandoli con un paio di birre prese dal frigo appositamente messo nel baule. Per prepararci alla situazione che ci aspetta, mettiamo un CD con i cori della curva del Brescia, risalente ad un Brescia-Roma di qualche anno fa’. Lungo il tragitto incotriamo tanti altri bresciani come noi, ci salutiamo suonando i clacson, sventoliamo le sciarpe. Man mano che ci avviciniamo a Padova l’adrenalina aumenta, le mani sudano, il battito cardiaco accelera: è il giorno che aspetto da 5 anni, uno di quelli che ricorderesti per tutta la vita e la speranza che il sogno si avveri, con le immagini della festa che spero di vivere che mi scorrono in testa, fanno tendere i miei muscoli. Arriviamo al casello di Padova Ovest, a un tiro di schioppo dallo stadio. La polizia ferma tutti i bresciani, che stanno arrivando in massa. Solito controllo di routine e poi si riparte, scortati, verso il parcheggio dello stadio, che raggiungiamo in meno di 5 minuti. Nel frattempo arrivano dalla stazione anche i pullman di chi ha scelto di affidarsi ai gruppi organizzati: una marea di maglie e di cuori biancoblù si dirige verso l’ingresso, tranquillamente, senza disordini. Anch’io, con i miei amici, mi avvio verso il varco del settore ospiti, dal quale dopo altri tre controlli accedo agli spalti dell’Euganeo. Il nostro settore è già quasi pieno e con la gente che deve ancora entrare si riempirà del tutto. L’atmosfera è bella, c’è voglia di sostenere la squadra, di vedere la partita e, perché no, anche di sfottere gli avversari. C’è gente di ogni età ed estrazione sociale, dai padri con i bambini, alle famiglie, ai gruppi di amici, ai ragazzi con le fidanzate, tutti accomunati da una maglia o una sciarpa biancoblù, dalla speranza di poter finalmente raggiungere quell’obiettivo tanto inseguito. Lo spirito è quello giusto e quando i giocatori entrano sul terreno di gioco per la prima ricognizione del campo si alzano i cori e sventolano le bandiere: lo spettacolo è talmente bello che alcuni calciatori fanno foto col cellulare o riprendono la scena con una microcamera. L’attesa cresce mentre aumenta anche il pubblico di fede padovana, col quale cominciano gli scambi di sfottò. I giocatori rientrano in campo per il riscaldamento e salutano la curva che li incita. Tra la gente c’è la speranza che si riesca per una volta a mettere da parte le divisioni e a tifare tutti uniti per la squadra, per la maglia, per la Leonessa d’Italia. Dopo quasi due ore di attesa stanno finalmente arrivando le 15, fatidico orario di inizio della sfida. Mancano solo 2 minuti, le squadre stanno facendo il loro ingresso in campo ma in curva, all’improvviso, c’è un silenzio irreale, una tensione pesante e non sportiva. Si sentono parole concitate, qualche insulto e l’attenzione della gente si concentra verso il centro della curva. Improvvisamente, succede l’inimmaginabile, quello che mai mi sarei aspettato, qualcosa che non avrei mai voluto vedere: gente della stessa città, tifosi della stessa squadra, persone che indossano la stessa amatissima maglia biancoblù si scagliano le une contro le altre mosse da chissà quale istinto fratricida. Chi con i pugni, chi armato di bastoni, chi addirittura con le cinghie in mano, questi “tifosi” mettono in scena lo spettacolo più becero, infame ed idiota cui io abbia mai assistito, una rissa violenta tra fratelli davanti agli occhi del resto degli spettatori che, spaventati ed attoniti, fuggono in alto per evitare di essere coinvolti nel marasma. La partita nel frattempo inizia e dopo meno di 2 minuti prendiamo gol, ma la maggior parte dei bresciani non lo vedono nemmeno, distratti dai tafferugli che proseguono e si spostano verso un angolo della curva. Vengono strappati degli striscioni, buttate oltre la recinzione alcune bandiere in segno di scherno. Dal resto degli spettatori di fede bresciana parte a quel punto un coro spontaneo, irripetibile per il contenuto blasfemo, ma concettualmente meraviglioso ed ineccepibile: “siamo bresciani... siamo tutti bresciani”. Un invito a smetterla, una supplica disperata a mettere fine a quel vergognoso scempio, un appello a tifare tutti insieme per la squadra, la maglia, la città. Niente da fare, alcuni partecipanti alla rissa, sentito il coro, si rivolgono verso gli spalti e, con volti insanguinati ed espressioni invasate, sfidano minacciosi gli altri ad entrare nei disordini, come se l’obiettivo di tutti non fosse sostenere la propria amata squadra e spingerla in serie A, ma dimostrare chi è più forte e più cattivo, chi picchia più duro, chi deve comandare. Anche io, come la maggior parte dei tifosi comuni, mi sono spostato in alto per non prenderle e sono capitato accanto ad un bambino che avrà avuto si e no 8 anni, dentoni grandi, maglietta del Brescia e 2 occhi terrorizzati. Il piccolino, evidentemente spaventato dalla furia di quelli che pensava essere amici, si è aggrappato alla mano del padre e sminascosto dietro la sua gamba gli ha detto “papà ho paura, andiamo via”. Qui, per me, la partità finita. Non importa se poi la squadra ha giocato in modo osceno, se abbiamo preso il secondo gol, se il mister ha sbagliato la formazione, se abbiamo sbagliato un gol fatto, se abbiamo rischiato di prenderne altri, se abbiamo accorciato le distanze su rigore. Questi sono argomenti di cui si può parlare quando si discute di calcio, ma che non hanno niente a che fare con quello che ho visto. Non importa se poi i tafferugli sono finiti ed i “capi” delle due fazioni hanno ripreso ad intonare cori, rigorosamente separati e con i volti segnati dalle botte. La partita è finita prima di iniziare perché mi hanno tolto la voglia di essere lì, l’entusiasmo, lo spirito, il sogno in cui credevo. Negli anni passati è capitato di assistere a scontri con le tifoserie avversarie, ma quando il “nemico” è nel settore opposto, lontano, la cosa è differente. Avevo sentito dire di tensioni e bisticci anche nei playoff di Bergamo e di Livorno, ma mai avrei pensato di vedere con i miei occhi immagini talmente oscene da farmi venire il vomito. Quando il pericolo proviene da chi è al tuo fianco, da chi difende gli stessi colori e parla persino il tuo stesso dialetto, quando un bambino sugli spalti ha talmente paura da voler scappare, nulla ha più un senso. Quel bambino allo stadio non ci verrà più e probabilmente nemmeno il papà ed è inutile poi chiedersi perché il Rigamonti è sempre semivuoto. Mi sono seduto ed ho aspettato di poter tornare a casa, sicuro che questa è stata l’ultima trasferta della mia vita. E come me hanno fatto tante persone presente sugli spalti, che si sono arrese alla bestialità: da quel momento la curva è rimasta praticamente muta. Ieri mi sono vergognato di essere bresciano e mai avrei immaginato di provare questa sensazione, mai. Io che mi sento la brescianità nelle viscere e che per quei colori ho sempre dato l’anima mi sono sentito tradito ed avrei preferito non essere lì. Alla fine della partita, tra gli sfottò degli avversari, è partita una canzone tanto cara ai padovani, che alla fine del ritornello recita “chi che ga visto Padova, no poe scordarla più...”. E mi è venuto quasi un po’ da piangere, perché è proprio vero. Quello che ho visto a Padova, non me lo scordo più.tuttoB
| | |
| |
|